Nella terra dei due fiumi, la terra di Abramo a Ur dei Caldei, di Ninive, l’attuale Mosul, la terra di Nabucodonosor e Shahrazad, la terra del petrolio e dei datteri, la terra di migliaia e migliaia di morti e di milioni di profughi, è in programma il viaggio di papa Francesco dal 5 all’8 Marzo.

Un viaggio di grande significato. Speriamo che si possa realizzare, e che l’attentato suicida dello scorso 21 Gennaio in pieno centro a Baghdad, con oltre 30 morti e un centinaio di feriti, non sia motivo per aumentare le preoccupazioni e magari arrivare ad annullarlo.

NELLA TERRA DEI DUE FIUMI – Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi Italia

Iraq: trent’anni dalla prima guerra del Golfo e in attesa della visita del Papa. Le armi, le vittime, gli esperimenti bellici e le attese.

Parlare di Iraq e di prima guerra del Golfo, (sono passati 30 anni) riporta alla mente quella notte tra il 16 e il 17 Gennaio 1991. Molti sono stati svegli e hanno assistito in diretta all’inizio dei bombardamenti su Baghdad: cominciava “Desert Storm“.

Una guerra preceduta da lunghi mesi di angosciante attesa e paura. Giovanni Paolo II in quell’occasione parlò della guerra come “avventura senza ritorno”. Come abbiamo fatto tante volte anche su Mosaico di pace, restano attuali ancora oggi le domande che ci siamo posti in tutti questi anni.

Le vittime

Chi ha contato le vittime irachene? Sappiamo il numero esatto delle vittime degli eserciti che hanno partecipato alla guerra, (tra questi anche l’Italia, con il noto abbattimento del Tornado con a bordo Bellini e Cocciolone, che fortunatamente si sono salvati) ma non abbiamo idea di quante vite siano state stroncate in Iraq. A chi interessava fare questo bilancio? A nessuno!

Interessante il webinar “Lo spartiacque, riflessioni su una guerra che ha rifondato il mondo” dello scorso 16 gennaio promosso da un Ponte per…, l’associazione nata proprio in occasione della prima guerra del Golfo, e che continua ancora oggi a operare in Iraq con la società civile, soprattutto i giovani, di quel paese. Tra i vari interventi, interessante quello della giornalista Giuliana Sgrena,  “Ho vissuto con gli iracheni quei mesi, gli ultimi tempi prima della guerra in cui si percepiva l’angoscia che ormai la guerra non si poteva più evitare. Con la guerra in Iraq l’informazione è cambiata.

Da allora la guerra è diventata uno spettacolo. Immagini non contestualizzate diffuse ad hoc. Non si doveva parlare delle vittime, si parlava molto di armi intelligenti e di bombardamenti chirurgici. Poi abbiamo scoperto che venivano usate le armi all’uranio impoverito e al fosforo bianco. Fino a quando non ci sono state le prove evidenti, da parte dei militari è sempre stato negato l’uso delle armi al fosforo, sostenendo che si trattava semplicemente di traccianti per illuminare gli obiettivi da colpire. I giornalisti non dovevano vedere. L’informazione ha un ruolo fondamentale per formare l’opinione pubblica. Quindi i giornalisti dovevano stare fuori. Infatti molti corrispondenti scrivevano dai paesi confinanti con l’Iraq, e aspettavano le ‘veline’ per dare le notizie.

Lo abbiamo visto poi con la seconda guerra del Golfo, 2003, quando si puntò tutto sulla diffusione della notizia che Saddam aveva le armi di distruzione di massa e perciò doveva essere colpito. Cosa che successivamente si è dimostrata non vera.”.

E ci ricordiamo che Tony Blair dopo molti anni ha chiesto scusa, ammettendo che quel conflitto ha favorito la nascita dell’Isis.

Una guerra basata sulla disinformazione. Nel 2003 non dimentichiamo che la corrispondente della Rai (poi diventata Presidente), Monica Maggioni, entrò a Baghdad, nel marzo 2003, a bordo di un carrarmato Usa: inviata di guerra, giornalista embedded.

Più che morti – vennero chiamati effetti collaterali – contava la ricaduta sulla Borsa. Infatti se si cerca su Google “borsa 17 Gennaio 1991” si possono vedere alcuni servizi del Tg2: “Primo giorno della guerra del Golfo. Come in tutto il mondo, anche in Italia sale la borsa: Milano +4,7%. Le Borse hanno detto sì a questa operazione militare”.

Il viaggio del Papa

E in quella terra dei due fiumi, la terra di Abramo a Ur dei Caldei, di Ninive, l’attuale Mosul, la terra di Nabucodonosor e Shahrazad, la terra del petrolio e dei datteri, la terra di migliaia e migliaia di morti e di milioni di profughi, è in programma il viaggio di papa Francesco dal 5 all’8 Marzo. Un viaggio di grande significato. Speriamo che si possa realizzare, e che l’attentato suicida dello scorso 21 Gennaio in pieno centro a Baghdad, con oltre 30 morti e un centinaio di feriti, non sia motivo per aumentare le preoccupazioni e magari arrivare ad annullarlo.

Ma prima di parlare di questo viaggio, è interessante riprendere quanto già scritto su Mosaico di pace proprio sul ruolo della Chiesa. “Quante volte Giovanni Paolo II ha condannato la guerra e ha cercato di impedire quella del 2003! Ma possiamo dire che era piuttosto solo. Quando nel 1991 don Tonino Bello, allora presidente di Pax Christi, cercò di dare eco alle sue parole «mai più la guerra», fu pesantemente criticato, sia da alcuni politici sia all’interno della stessa Chiesa. E anche negli anni successivi le posizioni ufficiali della Chiesa italiana non furono in linea con quelle parole del Papa. Ricordiamo ad esempio l’omelia durante i funerali delle vittime di Nassiriya. Pensiamo al fatto che non si disse quasi nulla davanti ai numerosi rapimenti e uccisioni di cristiani in Iraq. Ci fu un grande silenzio e anche un certo fastidio al sentir parlare di Iraq. Tra il 2007 e il 2008 furono uccisi laici, diaconi, sacerdoti e anche il vescovo di Mosul, mons. Rahho fu rapito e trovato ucciso il 13 Marzo 2008. Nonostante le sollecitazioni, solo dopo la sua morte ci fu un intervento ufficiale della Chiesa italiana. Il primo vescovo italiano, se escludiamo il nunzio o l’ordinario militare, ad andare ufficialmente in Iraq fu il presidente di Pax Christi, mons. Giovanni Giudici nel Giugno 2011”.

Il 12 Novembre 2003, ci fu l’attentato terroristico a Nassirya ai danni del contingente italiano: 19 morti italiani, 9 irakeni e 4 stranieri. Io e d. Fabio Corazzina eravamo a Mosul per l’ordinazione episcopale dell’amico Louis Sako, ora Patriarca Caldeo a Baghdad. Incontrammo Chester Egert, cappellano militare dell’esercito Usa, che ci disse: “Siamo venuti in Iraq perché Saddam doveva essere fermato in quanto troppo pericoloso; perché l’Iraq era collegato ad Al Qaeda e preparava attentati terroristici in Iraq e in tutto il mondo. Noi cappellani militari abbiamo il compito di sostenere lo spirito dei soldati. Siamo qui non per fare la guerra ma per portare pace, e in alcuni casi la pace va imposta, come stiamo facendo qui”.

E sempre con Fabio Corazzina partecipiamo a Baghdad il 18 novembre 2003, a una celebrazione presieduta dal nunzio mons. Filoni, per le vittime italiane di Nassirya. Citando le Beatitudini dice che “è santo chi opera per la giustizia e la pace. Creare le condizioni perché giustizia e pace siano stabilite esige lungimiranza, coraggio, perseveranza, di fronte ai conflitti multinazionali”. Non c’è spazio per le parole forti del Papa pronunciate nei mesi scorsi. Si ha un po’ la sensazione di essere a un ricevimento diplomatico… Poi alla sera, vediamo in tv alcune immagini e commenti dei funerali in Italia e ci guardiamo senza parole. Spegniamo la tv e usciamo nel cortile a far due tiri a pallone con Carlo, un ragazzino nostro amico. Da lontano si sentono forti scoppi di bombardamenti…”.

Il cardinale Patriarca Louis Sako ci dice della gioia che si vive in Iraq nell’attesa del viaggio del Papa. Da parte di tutta la popolazione, non solo dei cristiani. “Perché Francesco – ci dice sorridendo – non è il Papa solo di voi occidentali, è di tutti”. E Raniero La Valle, nel webinar citato (Per riascoltarlo: https://www.youtube.com/watch?v=dCkroVOdXi4&feature=youtu.be) sottolineava: “Con il viaggio del Papa in Iraq, a Baghdad, a Ninive, probabilmente si arriverà a una firma del documento sulla ‘Fratellanza Umana per la pace mondiale e la convivenza comune’ – firmato ad Abi Dhabi il 4 febbraio 2019 da papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb – con i vari leaders Sciiti e Sunniti.

Questo potrebbe avere una portata epocale.

Perché va a completare la volontà di camminare insieme, di non farsi dividere da un Dio diverso, ma di riconoscersi in una comune fraternità umana. Perché, non dimentichiamolo, una delle cause maggiori della guerra è stata la tragedia del conflitto tra Islam e Cristianesimo. È un grande messaggio positivo, oltre l’apocalisse. Un grande messaggio di speranza, oltre l’idea della distruzione, della fine del mondo”.


collegamenti in rete: Mosaico di Pace, Avvenire

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